Perché il Pisco si e la Grappa no?
Stimolato da un viaggio in Cile a contatto col Pisco, di cui vi parlerò in seguito, e dalla presenza di un eminente produttore di Grappa con cui confrontarsi, mi sorgono alcune considerazioni, infervorandomi, sullo spirito nazionale.
La premessa è che molte bevande spiritose di varie parti del mondo sono oramai in ogni bar del globo terracqueo. Il Pisco (per ora più il peruviano del cileno) è un esempio di bevanda nata in locale e che si è diffusa quasi ovunque soprattutto grazie a un cocktail bandiera, il Pisco Sour. Nel frattempo praticamente tutta la liquoristica italiana, quasi dimenticata, oltre che al Vermouth, al Campari e al Fernet Branca, sta avendo una grande popolarità e ci sono aziende che sono rinate grazie, oltre alla loro qualità, alla visione delle nuove generazioni (un compagno di viaggio autorevole suggeriva come esempio Luxardo).
Allora perché la Grappa, che in alcuni casi ha profili aromatici vicini al Pisco, non si schioda dal suo angolo, percepita nella maggior parte dei casi o come prodotto scadente (cosa che mediamente era 20 o 25 anni fa) o da anziani che la sorseggiano tra una mano di briscola e l’altra?
La prendo larga. Certamente il passato di prodotto fatto in molti casi con vinacce vecchie e ammuffite, bruciate nelle caldaiette e spesso distillate con mano incerta, oltre che ai danni ancora peggiori fatti dalle tremende “grappe del contadino”, alla stregua di diluente, hanno lasciato la fama e l’autorevolezza della distillazione italiana tramortita sul pavimento. Spesso ancora si sente gente che se la grappa “non è sincera se non gratta in gola”. Però proviamo a tirare una riga e vediamo la situazione attuale. In mezzo a tanti produttori industriali, semplici miscelatori e blender, marchi senza alambicchi dietro le spalle, grappe piene di zucchero, a volte anche oltre i già esagerati 20g/litro, ci sono validi artigiani e prodotti di assoluto valore. Per quanto non delle più illuminate esiste una tutela della Grappa, almeno in Europa, che può essere distillata in Italia, Ticino e altre piccole zone della Svizzera, solo da vinacce. Esiste qualche linea guida per la maturazione e il massimo quantitativo di zucchero ammesso, anche se 20g/litro sono tantissimi, ma almeno c’è. Allora se voi prendete in mano una bottiglia siete in grado di sapere quanto è stata maturata in botte, se non è “bianca”, da che alambicco, se è una distilleria o solo un marchio o un blend di grappe? Allora la strada per i piccoli artigiani è solo una, distinguersi dai “grandi” che, sia chiaro, non fanno nulla di illegale, fanno i loro interessi e portano avanti le loro politiche. Come fare a distinguersi? Scordiamoci disciplinari, regolamenti, parlamento, EU, tavoli tecnici e altre diavolerie politiche. La strada è una sola, comunicazione. Voi bravi e piccoli distillatori mettetevi assieme, fondate una associazione tipo “Grappa Artigiana” e dite che le vostre grappe:
- sono distillate con piccoli impianti artigianali
- contengono massimo 5g/litro di zucchero
- in caso di invecchiamento, date una chiara tracciabilità di quanto tempo e in che tipo di contenitori
aggiungendo qualsiasi altro particolare che vi distingua dai grandi produttori. Fatevi un marchio, una campagna di comunicazione. Comunicate il vostro prodotto e sperimentate, modernizzate e cercate di togliere la cattiva nomea della “graspeta”. Toglietevi i pregiudizi, fate formazione, parlate coi bartender, coi consumatori e provate almeno voi a stare insieme. Prendete spazi alle fiere nazionali e internazionali, fateci sapere che ci siete e che non avete nulla da invidiare ad altri distillati e magari studiatevi un cocktail “bandiera”.
E giù il cappello.
Anche questa volta l’articolo di Davide è chiaro ed istruttivo (per me)
i suoi suggerimenti ai produttori di grappa sono illuminanti.
Farò in modo che li leggano alcuni piccoli produttori che seguo da anni a cui la passione non è mai venuta meno.
Grazie Giorgio. Mi sono arrivati messaggi positivi e altri sconsolati. Vediamo se si riesce ad uscire dalla palude.