Kyoto: altro whisky (e altre bevute)
Kyoto non è certamente solo Bar K6. Nella via più frequentata dai turisti, Pontocho, vi potreste imbattere in un whisky bar, su cui nome devo indagare non avendo ancora imparato il giapponese (me l’hanno anche già tradotto ma me lo sono scordato) il Kisshou, che merita una fermata. Certo non è sicuramente a buon mercato, ha una cover charge di 600 yen e le bevute non sono certo popolari, ma la posizione e le chicche che trovate all’interno giustificano il prezzo. Ci sono diversi single cask di distillerie giapponesi anche piuttosto datati e qualche piccola boccetta di Karuizawa di anni lontani (i più datati del 1977 e del 1980) oramai quasi estinte. Mi prendo per una cinquantina di euro un 25 anni del 1980: al naso nota di zolfo e brodo (alla Mortlach per intenderci), arancia e pepe bianco. Fresco in bocca, menta, marmellata di arancia, frutta rossa, amaretti. Finale lunghissimo con una bella liquirizia. Nonostante i suoi 58 gradi scivola via che è un piacere. Lasciando lì poi qualche minuto ti svela il biscotto, la caramella mou. E se poi ci metti due gocce d’acqua il fresco della menta ti esce anche al naso e diventa molto balsamico e soffiando via la nota sulfurea. Pepe bianco a palate e cacao. Amarene, ciliege e nota acida. Se si ha la pazienza di lasciare il bicchiere vuoto lì e farci una bella annusata sembra di aprire una scatola di after eight: menta e cioccolato. Chi l’avrebbe mai detto.
Sul fronte acquisti praticamente ovunque trovate un buon numero di referenze, persino al reparto liquors del Bic Camera di fianco alla stazione, un catena specializzata in elettronica ma che ha più alcolici del 60% delle enoteche di casa nostra.
Mi sono imbattuto in un negozio non lontano dal K6 con un altissimo numero di referenze scozzesi e prezzi più convenienti che da noi. Potete vedere qualche foto voi stessi e farvi due conti a memoria per capire di cosa sto parlando.
Sul fronte birra, il Craftman ha 25 spine giapponesi, la cosa che mi ha turbato è che i rubinetti non hanno nessun numero e nessuna indicazione ma il proprietario va senza esitazioni e spilla: viene quasi il dubbio che sia una presa per i fondelli se non fossero giapponesi.
Sorpresa molto bella su fronte saké, che in realtà si chiama nihonshu e ricordate che non è un distillato ma un fermentato, il Yoramu (www.sakebar-yoramu.com), gestito da un istraeliano che abita in Giappone da trentanni e con cui quindi si può chiaccherare senza problemi in inglese. Sono entrato e gli ho detto: “non so nulla, fammi fare un percorso per capirne qualcosa di più”. Direi che il corso accelerato ha funzionato. Yoram mi diceva che il riso è pieno di aminoacidi e quindi l’evoluzione in bottiglia, anche pastorizzando, è data dall’ossidazione di questi; questo aspetto in Giappone non è ancora molto diffuso . E in effetti mi ha fatto annusare un saké con una ventina d’anni di bottiglia che aveva il colore dello sherry e al naso sembrava quasi un Madeira. Ho assaggiato uno con 14 anni di bottiglia e aveva note da passito e un po’ da Sauternes. Un altro con 5 anni fatto da lui, pastorizzato e molto ossidato e minerale, quasi un Pinot Noir volendo forzare. Il più semplice, non pastorizzato, aveva una bella acidità e poteva essere paragonato a un Pinot Grigio (anche qua solo per dare l’idea).
La cosa che ho notato, anche bevendo qualche birra di riso, è che comunque hanno tutti pochissimo corpo, anche a fronte di complessità e dolcezze importanti. Tutti molto secchi in gola (quasi “sharp”). Pare che questa secchezza e sapidità sia data dal tipo di fermentazione che avviene in due fasi: nella prima l’amido viene attaccato da una una muffa dei cereali, il koji , che di fatto compie il lavoro che solitamente fa il maltaggio, cioé trasformare zuccheri che non possono essere attaccati dai lieviti in zuccheri semplici. Sembra che il motivo di questa secchezza sia da ricercare appunto nel koji, che rilascia sostanze simili al glutammato e che danno le famose senzazioni di sapidità (umami).
Ho provato anche un fermentazione spontanea: acidità lontanissime dai Lambic, anche perché non fanno passaggio in botti “zozzone”, ma interessante, più simile a qualche “vino naturale” che mi è capitato di provare.
Capitolo temperature: la tradizione vuole che il nihonshu sia servito caldo (ne ho provati un paio ma non mi sono piaciuti), la tendenza moderna è quella di seguirne le complessità, le acidità e le freschezze come si fa per altri fermentati. Ci manca solo che inizi a bere pure questo. Protocollo di Kyoto rispettato.